Introduzione
Viviamo ormai in quella che sta diventando, o presume di essere, l’era dell’intelligenza artificiale. La troviamo negli smartphone che usiamo, nei motori di ricerca che consultiamo e persino nelle raccomandazioni di prodotti che ci sembrano profetiche. In questo scenario, si è fatta strada un’immagine potente e inquietante: quella dell’AI come un Grande Fratello digitale, un occhio onnipresente e onnisciente capace di vedere, sapere e prevedere tutto su di noi. Questa narrazione evoca il concetto filosofico del Panopticon, la prigione ideata da Jeremy Bentham, in cui una singola torre di guardia può osservare tutti i detenuti, costringendoli all’autocontrollo per paura di essere sempre sorvegliati.
Il bias panottico per l’AI
Per prima cosa, è necessario fare chiarezza. Quando parliamo di “panottico” in relazione all’IA, non ci riferiamo a una tecnica specifica, come la panoptic segmentation (che consente a un’AI di “vedere” e classificare oggetti in un’immagine).
Ci riferiamo a qualcosa di più profondo: la pretesa di onniscienza, la capacità di processare l’intera gamma della conoscenza e dell’esperienza umana senza filtri o parzialità. L’idea panottica, sia nei fruitori che nei programmatori, suggerisce un’entità superiore, oggettiva e universale.
Questo ci porta alla definizione di bias panottico, sotto due punti di vista:
- Per i fruitori, è l’accettazione passiva del risultato dell’interazione come verità assoluta di un’AI monade, oracolo, che vede tutto ed è addestrata su tutto.
- Per i tecnici, è la falsa pretesa di programmare ed addestrare un’AI onnicomprensiva che per costruzione ed addestramento contempli tutte le casistiche, i cui errori non sono previsti by-design ma gestiti come ‘allucinazioni’ imprevedibili ex-post.
È importante quindi fare definire azioni e strumenti di mitigazione di questo bias sia lato utente che lato tecnico.
Proviamo di seguito a proporre alcune suggestioni, nell’ottica di aprire e alimentare un dibattito.
Il bias panottico e l’interazione con l’AI ovvero oltre l’illusione della visione totale
Per comprendere appieno quanto il “bias panottico” distorca la percezione del reale valore e della natura interattiva di un’Intelligenza Artificiale generativa (testuale o multimodale), è utile ricorrere a un’analogia potente e suggestiva tratta dalla fisica quantistica. Questo paragone ci aiuta a ridefinire il rapporto tra utente e AI, spostando il focus dall’osservazione passiva all’azione di co-creazione.
Pensiamo al celebre paradosso di Schrödinger, in cui il gatto nella scatola si trova in una sovrapposizione di stati – è simultaneamente vivo e morto – finché l’osservatore non interagisce con il sistema (aprendo la scatola) e “collassa” la funzione d’onda, definendone irrevocabilmente lo stato finale (morto o vivo).
In modo analogo, il nostro modo di interagire con un’AI generativa ne definisce e ne direziona radicalmente la risposta. L’universo di risposte potenziali che l’AI “contiene” prima della nostra richiesta è vastissimo, una vera e propria sovrapposizione di possibili output. La nostra interazione agisce come l’osservatore nel paradosso:
- La Domanda (il Prompt): Le parole esatte che usiamo, la loro formulazione, la sintassi e la semantica non sono semplici input, ma vettori di direzione che limitano il campo di possibilità.
- Il Contesto Fornito: Ogni dato, vincolo o premessa che includiamo nel prompt non fa che restringere ulteriormente l’universo delle risposte plausibili.
- Il Feedback Implicito: Anche la scelta di non proseguire, di riformulare, o di accettare una risposta (anche se non esplicitamente comunicata all’AI come feedback di addestramento) riflette una dinamica di modellamento.
Questa azione di interazione plasma l’universo di risposte possibili, “collassandolo” in un’unica, specifica risposta. L’output che riceviamo non è la rivelazione di una verità onnisciente preesistente, ma il risultato di questa specifica “misurazione” interattiva.
Chi è quindi l’Osservatore?
Se accettiamo che l’output dipende in modo così critico dalla specificità della nostra interazione, l’AInon può essere definita “panottica”. L’idea che stia “vedendo tutto” o che stia attingendo a una conoscenza universale in quel momento è un’illusione.
In realtà, in quell’istante di interazione, l’AI sta vedendo solo la minuscola, ma essenziale, frazione di realtà che le abbiamo mostrato attraverso la nostra richiesta. La dinamica di potere percepita si rovescia: non siamo noi sotto il suo sguardo onnicomprensivo, ma è lei a rispondere e reagire al nostro. Siamo noi a dirigere il fascio di luce sulla porzione di conoscenza che vogliamo che sia elaborata.
Questo cambio di prospettiva impone un’urgente necessità di alfabetizzazione digitale per gli utenti. È fondamentale che gli utilizzatori di AI comprendano e facciano propria una verità operativa cruciale:
- L’AI non vede tutto: il modello non ha accesso continuo e illimitato al mondo reale né alla totalità delle informazioni esistenti (specialmente se ha un knowledge cutoff). La sua conoscenza è limitata dal dataset su cui è stata addestrata.
- L’AI non è addestrata su tutto: sebbene i dataset siano immensi, sono comunque campioni finiti e riflettono i bias e i limiti dei dati raccolti. L’AI non possiede la comprensione umana del contesto, dell’etica o dell’esperienza sensoriale in modo organico.
Comprendere che siamo noi a plasmare l’output attraverso la qualità e la specificità del nostro prompt non solo ridimensiona il timore del “panottico”, ma eleva anche la nostra responsabilità e competenza nell’uso di questi strumenti, trasformandoci da semplici consumatori a co-creatori attivi del risultato.
Il bias dei tecnici che non sanno di avere bias ovvero l’illusione di neutralità nell’AI
Se l’illusione panottica si sgretola dal lato utente, dall’altra prospettiva, quella tecnica, la situazione è, paradossalmente, ancora più chiara e, forse, più insidiosa. Ogni intelligenza artificiale, ogni algoritmo, è intrinsecamente un prodotto di scelte umane, e ogni scelta, sia essa consapevole o dettata da vincoli tecnici o economici, introduce inevitabilmente un punto di vista, un’esigenza specifica, e quindi un bias.
L’errore fondamentale, che si può definire il bias panottico per i tecnici, risiede nell’avere la presunzione che l’AI possa essere un “occhio neutrale” o uno “specchio oggettivo” della realtà. Questa convinzione si basa sull’idea, fallace, che poiché l’AI viene addestrata su immense quantità di dati (spesso definiti come “tutti i dati”), essa possa trascendere la parzialità umana. Questa pretesa di neutralità è in sé il più grande dei pregiudizi, poiché ignora il fatto che i dati stessi, i processi di selezione, la scelta degli algoritmi e gli obiettivi di ottimizzazione sono tutti filtri umani.
È cruciale, quindi, essere pienamente consapevoli che ogni AI è profondamente “parziale” per costruzione. Non si tratta di un difetto, ma di una caratteristica intrinseca del processo di sviluppo. Anche quando l’intenzione dichiarata è quella di costruire un sistema equo e imparziale, le decisioni pratiche e i compromessi tecnici introducono inesorabilmente elementi di distorsione. La vera sfida non è eliminare i bias — un obiettivo irrealistico — ma riconoscerli, esplicitarli, gestirli e mitigarne gli effetti più dannosi.
Le fonti di questa inevitabile parzialità sono molteplici e interconnesse. Ne elenchiamo qui di seguito alcune tra le più significative, in un elenco che, pur breve, è esso stesso parziale:
- Bias nei dati di addestramento (Il bias dello specchio distorto): l’AI non crea conoscenza dal nulla; impara dai dati che le forniamo. Se questi “dati del mondo reale” riflettono disuguaglianze sociali storiche, stereotipi culturali radicati (come la rappresentazione sbilanciata di genere o razza in determinate professioni) e visioni predominanti di una certa classe sociale o di un’area geografica, l’AInon farà altro che apprendere e, spesso, amplificare quelle stesse distorsioni.
- Bias algoritmici e di progettazione (Il bias del creatore): La fase di sviluppo è un susseguirsi di scelte discrezionali degli sviluppatori. Queste decisioni includono: quali obiettivi matematici ottimizzare (velocità di esecuzione, accuratezza), quali parametri e pesi assegnare, quali metriche definire come “successo” e quali dati escludere o includere.
- Bias di mercato o di obiettivo (Il bias dello scopo): l’AI viene costruita per uno scopo specifico, che ne modella inevitabilmente la prospettiva e la struttura interna. Lo scopo non è neutrale.
- Bias di Interazione e Contesto (Il bias della retroazione): Una volta che un’AI viene implementata, le sue decisioni influenzano il comportamento umano e, in molti casi, retroagiscono sui dati che verranno utilizzati per il suo prossimo aggiornamento. Questo crea un circolo vizioso, cioè un feedback loop.
La consapevolezza di questi bias non è un esercizio accademico, ma una necessità etica e pratica. I tecnici devono abbandonare l’illusione panottica e adottare un approccio basato sul “design responsabile”, riconoscendo che ogni riga di codice è un atto di potere e che la parzialità è una realtà da affrontare, non da negare.
Per i tecnici, quindi, la mitigazione dei bias si configura come un imperativo categorico e un percorso che si articola su più livelli di intervento. In primo luogo, è essenziale un’urgente e necessaria alfabetizzazione estesa sui bias di natura algoritmica, dati e cognitivi che possono insidiare l’intero ciclo di vita dello sviluppo di sistemi basati sull’intelligenza artificiale.
In secondo luogo, la sfida si sposta sulla programmazione cosciente, ovvero sull’adozione di metodologie di sviluppo che integrino, fin dalle prime fasi, tecniche di mitigazione by-design. Questo approccio proattivo significa non limitarsi a correggere le distorsioni ex post, ma progettare l’architettura del sistema in modo da minimizzare intrinsecamente la possibilità di propagazione o di amplificazione dei bias.
Un elemento cardine per massimizzare la responsabilità e la fiducia nei sistemi è la ricerca della riproducibilità e della spiegabilità (o explainability). I modelli complessi non devono rimanere “scatole nere”. Per questo, è cruciale la creazione di pipeline di sviluppo frammentabili in step logici e discreti. Ogni singola fase – dalla raccolta e pre-elaborazione dei dati, all’addestramento, alla validazione del modello – deve essere valutabile e misurabile separatamente.
Questa granularità non solo facilita l’identificazione precisa del punto di origine di eventuali distorsioni o drift del modello, ma coinvolge anche attivamente l’azione dell’umano. L’intervento e la supervisione di esperti di etica e di dominio, attraverso l’analisi dei risultati intermedi di ogni step, garantiscono un controllo di qualità iterativo e robusto, trasformando la mitigazione dei bias da mero requisito tecnico a una pratica di governance etica del processo di sviluppo dell’IA.
Perché è essenziale riconoscere i limiti dell’AI: Oltre l’Illusione Panottica
Riconoscere e accettare che l’Intelligenza Artificiale non possiede una visione panottica non è un mero dibattito accademico o filosofico. È, al contrario, un imperativo pratico, con ripercussioni immediate e profonde per ogni stakeholder: sia chi utilizza l’AI quotidianamente sia chi è responsabile della sua progettazione e implementazione. La mancata comprensione di questo limite intrinseco genera aspettative irrealistiche e, peggio ancora, può comportare conseguenze etiche e operative indesiderate.
Per gli utenti: dal consumatore passivo al navigatore consapevole
La consapevolezza che l’AI opera su dati parziali, contesti specifici e modelli predefiniti è la chiave per trasformare l’utente da semplice ricevitore passivo di informazioni a navigatore attivo e critico.
L’interazione con un sistema di AI non deve essere percepita come la consultazione di un oracolo infallibile, ma come una costruzione collaborativa e critica di un percorso di conoscenza. L’utente, riconoscendo la natura parziale delle risposte, è chiamato ad assumere un ruolo proattivo:
- Orientamento Attivo della Conversazione: È necessario porre domande precise, fornire contesto rilevante e persino mettere in discussione le risposte. L’utente deve guidare attivamente il dialogo, compensando la mancanza di una visione d’insieme dell’AI.
- Riconoscimento della Parzialità: Le risposte generate non sono verità assolute o oggettive, ma specifiche estrapolazioni statistiche basate sui dati di addestramento. Accettare questo permette di non “cadere” nell’illusione di schemi che sembrano panottici ma che in realtà riflettono solo la prevalenza o il bias dei dati utilizzati.
- Gestione del Reinforcement Learning (Apprendimento per Rinforzo): Ogni interazione, ogni feedback implicito (come l’accettazione acritica di una risposta) o esplicito, viene utilizzato dal sistema per affinare i suoi modelli. Un uso passivo e non critico dell’AI rischia di alimentare involontariamente un circolo vizioso:
- Le risposte che contengono tendenze, stereotipi o pregiudizi presenti nel training data vengono rinforzate e rese più probabili.
- L’AI diventa sempre più incline a offrire risposte stereotipate e convenzionali, riducendo la diversità e l’accuratezza delle risposte future.
- L’utente, inconsapevole di questo meccanismo, finisce per ricevere un’esperienza sempre più ristretta e potenzialmente distorta, rinforzando l’idea erronea di un’unica “verità” onnicomprensiva.
- B) Per i tecnici e i creatori: superare il “Bias Panottico” nella Progettazione
Per coloro che progettano, sviluppano e implementano sistemi di AI, il riconoscimento dei limiti è un cardine dell’etica del design. Il “bias panottico” è la presunzione dannosa di poter costruire un sistema universale, neutrale e oggettivo.
La vera sfida etica e tecnica non è inseguire un’utopica e pericolosa onniscienza artificiale, ma abbracciare la specificità e la trasparenza:
- Abbandonare la Pretesa di Universalità: I sistemi di AI devono essere progettati riconoscendo la loro contestualità. Un modello addestrato su un set di dati non può e non deve essere spacciato per una soluzione universale a problemi complessi e culturalmente variegati.
- Trasparenza sui Limiti e sui Bias: I creatori hanno il dovere di rendere espliciti e comprensibili:
- I dati di addestramento: Origine, composizione e possibili lacune o distorsioni.
- Le aree di incertezza: Dove il modello è meno affidabile o dove le sue previsioni sono più deboli.
- I meccanismi di reinforcement learning: Come l’interazione dell’utente modificherà (o non modificherà) il comportamento futuro del sistema.
- Progettazione per la Specificità: Concentrarsi sulla creazione di sistemi eccellenti in domini specifici, con limiti chiaramente definiti, piuttosto che tentare di costruire un’AI “generale” che inevitabilmente fallisce nel restituire una visione completa.
Conclusione: La Consapevolezza come Strumento Pratico
Questa consapevolezza, lungi dall’essere una speculazione filosofica astratta, è uno strumento operativo fondamentale. Per l’utente, essa fornisce la chiave per un uso consapevole e critico della tecnologia, permettendo di costruire attivamente la conoscenza e di non subire passivamente le risposte stereotipate. Per i creatori, impone un design etico e responsabile, basato sull’umiltà dei limiti intrinseci. Solo comprendendo che l’interazione umana è l’elemento cruciale che orienta e completa il percorso dell’AI si può evitare di ricadere in schemi illusoriamente universali e pericolosamente autoreferenziali.